La nascita della frontiera: insediamenti e fortificazioni nell'Etruria della prima età del ferro

 

dott. Maurizio MARTINELLI, Regione Toscana Giunta regionale - Dipartimento della Presidenza

Per poter approfondire adeguatamente l'evolversi del concetto di frontiera nell'Età Moderna, è necessario compiere un passo indietro per avere ben presenti le fasi protostoriche e storiche in cui tale concetto si forma. Per l'area italica, ed in particolare per l'Italia centrale, questo momento formativo si colloca all'inizio dell'età del ferro; in particolare il formarsi della civiltà etrusca - sin dalle fasi di facies culturale villanoviana - costituisce un esempio estremamente indicativo di come la formazione della frontiera e della necessità di una difesa del territorio sia legata alle evoluzioni della realtà politica, sociale, economica e tecnica. Nel periodo a cavallo tra la fine dell'età del bronzo e l'inizio dell'età del ferro l'Italia centrale tirrenica fu infatti teatro di importantissime trasformazioni culturali, sociali ed ideologiche dalle quali scaturirono il formarsi di agglomerati protourbani e l'ampliamento esponenziale dei territori soggetti a tali centri insediativi.

Andando ad indagare il periodo precedente, gli insediamenti dell'età del bronzo recente e finale risultano essere stati solitamente collocati su alture, talora terrazzate, lungo percorsi che coincidevano sovente con quelli preistorici delle transumanze, all'epoca ancora in uso; tali abitati prediligevano siti naturalmente difesi e con un buon approvvigionamento idrico, ma - secondo la tradizione dell'età del bronzo - in vari casi continuavano a non occupare l'intera area sommitale delle alture, limitandosi piuttosto ad utilizzarne una parte, talvolta marginale. L'area occupata, secondo i risultati coincidenti di vari studi, andava dai 2 ai 15 ettari circa, determinando una popolazione di alcune centinaia di persone, al massimo 1-2 migliaia. Tali centri erano a controllo di un territorio piuttosto ristretto, di circa 2-8 km di raggio, ed in alcuni casi anche meno, sufficiente alla sussistenza agricola della comunità senza accumulo di consistente surplus produttivo.

La frontiera, pur esistendo una demarcazione tra i territori di comunità diverse, non poteva ancora esistere con limite netto di separazione tra due aree di influenza distinte; è di primaria importanza rilevare quindi che attorno all'area fortemente controllata dal villaggio con la presenza e lo sfruttamento quotidiano dato dalla frequentazione assidua, si trovava un anello di "terra di nessuno", il cui sfruttamento o attraversamento poteva costituire un casus belli se i trasgressori venivano colti in flagrante, o in presenza di un elevato livello di bellicosità da parte di una delle comunità limitrofe. Proprio per l'assenza di una frontiera dall'età del bronzo finale entrano in uso delle difese fisse artificiali direttamente attorno agli insediamenti, a documento di una crescita delle guerre di sterminio rispetto agli scontri nelle terre marginali.

Col passaggio all'età del ferro in diverse zone del centro Italia, specie nell'Etruria meridionale, si assiste all'abbandono di vari siti, occupati talora da secoli, a favore di alcuni dei preesistenti che vivono invece una fase di crescita; si ha inoltre la creazione di altri nuovi centri, lungo vie di comunicazione nuove, riferibili e collegate a valli fluviali. I siti degli insediamenti di facies culturale villanoviana appaiono ancora, come in precedenza, alture dai fianchi scoscesi, con corsi d'acqua ai loro piedi, spesso costituite nell'Etruria meridionale da pianori con tracce di difese artificiali; al loro interno le zone abitative risultano disposte "a macchie di leopardo" sulla più gran parte del terreno, anche se ancora intercalate con zone di uso orticolo e per allevamento di animali da cortile.

Tali insediamenti villanoviani risultano aver occupato aree abitabili di circa 100 ettari ed oltre; contemporaneamente il territorio assoggettato si espande, giungendo a superare i 1000 kmq, e determinando una realtà agricola totalmente innovativa connessa con una regressione dell'uso della transumanza e con un più saldo controllo di ampi distretti minerari, assieme a nuove necessità di azione politico-sociale per lo sfruttamento ed il dominio militare di tale territorio.

Con l'VIII sec. a. C. la tra gli uomini dei centri protourbani si consolida ed allarga, in una gerarchia verticale dove al vertice sono collocati i capi dei gruppi gentilizi, dalla elevata autorità politica e forse anche sacrale; sotto di loro si collocano i guerrieri, a loro volta distinti gerarchicamente tra coloro che sono armati di spada (e talora anche di lancia) e coloro che invece sono armati di sola lancia. I molti maschi sepolti senza armi rappresenterebbero gli elementi subordinati non ammessi all'attività militare con l'esclusione dai pieni diritti - grazie all'abbondanza demografica - nonché i giovani in età premilitare.

Il definirsi di un vero e proprio limes in tale epoca è attestato da alcune testimonianze legate al mondo religioso: un passo di Virgilio e un altro passo letterario latino che fa riferimento ad un testo religioso etrusco riportano come un evento di enorme portata, omero il costituirsi del nuovo pantheon religioso etrusco sia stato addirittura segnato dalla creazione del concetto stesso di confine, che porta con se quello di limes, di frontiera. La centralità dell'introduzione dei confini nella civiltà etrusca è tale che la limitatio - la suddivisione in aree nettamente definite - fu alla base dell'intera concezione del cosmo presso gli Etruschi, i cui sacerdoti ripartivano sia l'universo che le aree sacre urbane, il fegato delle vittime immolate ed ogni spazio dove si riteneva che si potessero manifestare gli dèi, in parti esattamente definite. Tale fase storicamente va collocata nel momento della prima età del ferro, con la fase matura della cultura villanoviana e col periodo orientalizzante, nel quale si diffonde la proprietà privata terriera e si crea la necessità di delineare dunque con esattezza le estensioni di territorio soggette sia ai singoli privati che alle singole comunità dai territori estremamente ampi. Tale periodo coincide peraltro col diffondersi, attestato archeologicamente, di abitazioni a pianta angolare, omero dalle proporzioni misurabili, e dunque collocate su terreno anch'esso misurabile ed attribuibile per proprietà con esattezza.

L'estensione del territorio doveva aver comportato la necessaria presenza di alcuni punti per l'avvistamento ed il controllo avanzato nei pressi della frontiera coi popoli vicini, specie nei punti lungo gli assi viari principali. Di tali strutture tuttavia le tracce sono molto esigue, e si può pensare che coincidano con quelle di alcuni villaggi molto secondari compresi nel territorio del centro egemone. La rarità di essi, oltre alla difficoltà di conservazione archeologica, va anche messa in relazione con il pochissimo tempo trascorso dal formarsi delle comunità protourbane per sinecismo o per soppressione dei villaggi rivali; dunque la presenza di siti fortificati a poca distanza dal centro egemone sarebbe stata ancora avvertita come un pericolo centrifugo forte nel contesto politico dell'epoca. La strutturazione della cosa pubblica era inoltre ancora embrionale, e sarebbe dunque erroneo ricercare in tale fase un sistema di difesa complesso come quello degli stati territoriali moderni, o anche voler far precorrere con troppo anticipo le strutturazioni della polis greca ed italica.

 

 

 

 

Frontiere e confini nella storia dello stato moderno e contemporaneo

 

Prof. Vittore COLLINA

 

 

Pensando alla storia dello stato moderno, quale si è venuto costituendo a partire dal XV secolo, si può dire che gli spazi che esso plasma, le frontiere e i confini che lo delimitano e l'importanza che essi rivestono, attraversano varie fasi.

In una sintesi estrema la prima fase vede l'opera di unificazione e di centralizzazione dello stato che, dopo una lunga serie di conflitti, di battute d'arresto e di vittorie, ha ragione degli spazi universalizzanti da un lato e plurimi e frammentati dall'altro della civiltà medioevale. In questa fase, che perdura fino a tutto il Settecento, l'iniziativa dominante nella creazione degli spazi è nelle mani degli stati, che rafforzano le proprie zone di frontiera, definiscono i propri confini e segnano il loro sistema di prossimità territoriale organizzando le proprie risorse interne e misurandosi nell'arena dei reciproci rapporti internazionali.

Nella seconda, che si può far coincidere con l'Ottocento, accanto all'iniziativa degli stati, in relazione ai mutamenti istituzionali e amministrativi all'interno e alle conquiste coloniali alt esterno, diventa rapidamente visibile l'influenza crescente che la rivoluzione industriale esercita a sua volta sugli spazi. Influenza che opera direttamente sulla ripartizione territoriale della produzione, sulla distribuzione delle merci e sugli scambi, ma che si manifesta anche nella creazione di nuovi mezzi di trasporto, che modificano radicalmente la pratica delle distanze e il rapporto spazio - tempo. Nella produzione dello spazio entra così in gioco, in termini molto più incalzanti che in passato, la tecnica in quanto applicazione su scala industriale di scoperte scientifiche dalle precise applicazioni pratiche. E' quasi superfluo aggiungere che gli spazi prodotti dall'industria e dagli sviluppi tecnologici si intrecciano rapidamente con gli spazi prodotti dallo stato e viceversa.

La terza fase, novecentesca, vede ancora momenti di strette interrelazioni tra gli spazi posti in essere dagli stati e quelli creati dagli sviluppi industriali e tecnologici, ma è caratterizzata poi dal sopravvento che conquistano le tecnologie, sostenute dalle strutture produttive e da adeguati investimenti finanziari, e dal declino del modello dello stato moderno nel quadro di prospettive economiche e politiche dichiaratamente mondiali.

Alle zone di frontiera, che nell'età moderna sono contrassegnate da fortificazioni, piazzeforti e apparati bellici, e ai confini, che raggiungono la loro relativa stabilità nell'Ottocento e consistono nelle linee di demarcazione riconosciute tra stato e stato, si aggiungono così i confini economici della produzione, del commercio e della finanza, i confini etnici delle nazioni, i confini culturali della produzione letteraria e giornalistica. Con strumenti propagandistici più o meno raffinati, gli stati, al di là dei loro confini politici, allargano aree di influenza linguistico - culturale ed entrano in competizione anche a questo livello. Mentre poi con i mezzi di comunicazione di massa che si fanno sistema e che si fanno sistema e che sostengono una circolazione mondiale di notizie, di informazioni e di prodotti mediatici, si delineano altri confini che non cingono più spazi di produzione statale, ma appartengono ad altri ordini di realtà.

Già l'uso degli aeroplani e poi dei satelliti ha messo in rilievo sul piano militare i limiti dei confini territoriali davanti agli sviluppi tecnologici. Se, come alcuni ricercatori sostengono, le guerre del futuro non si combatteranno più con la distruzione materiale di persone e di cose, ma si sosterranno con la disarticolazione delle comunicazioni dell'avversario, a maggior ragione si avrà conferma di come le nostre società si siano allontanate dai parametri classici del mondo moderno per accamparsi in regioni dove i confini sono sempre meno contrassegnabili con paletti materiali e sono sempre più innervati di tecnologia avanzata:

 

 

 

 

La frontiera nelle dottrine geopolitiche marittime e continentali

 

Dott. Emidio DIODATO

 

La storia del pensiero presenta una distinzione tra dottrine marittime e continentali che è stata impiega come criterio interpretativo per ordinare le diverse tradizioni politiche. L'obiettivo della relazione non è stabile la pertinenza di questa distinzione, neppure di negarne la validità, ma di segnare un tratto significativo della sua storia, quella che la lega all'affermazione delle dottrine geopolitiche dalla fine dell'Ottocento fino alla metà del Novecento. L'interesse andrà quindi sia alle sovrapposizioni sia alle differenze.

Per quanto concerne le dottrine geopolitiche marittime sarà preso in esame il pensiero dello storico navale statunitense Alfred T. Mahan. L'ammiraglio Mahan si è occupato di storia navale con una vasta produzione di 20 libri e 137 articoli, specie sull'"Atlantic Monthly", che hanno avuto una grande influenza sul pubblico americano e in particolare su Theodore Roosevelt. Nel periodo che va dal 1901 al 1909 il presidente americano lanciò un programma navale dichiaratamente ispirato alle tesi sul potere navale di Mahan, al fine di non dividere la flotta Atlantica e Pacifica e ottenere il dominio sui mari. Il contributo maggiore del teorico del potere navale fu lo sviluppo del concetto di Manifest Destiny ereditato dalla tradizione inglese, per cui il destino del popolo americano era il dominio dei mari del mondo.

Le dottrine geopolitiche continentali saranno invece trattate attraverso la figura di Karl Haushofer. Il generale tedesco fu animatore della rivista Zeitschrift fur Geopolitik fondata nel dicembre 1923 e che ebbe grande influenza sul pubblico tedesco e sulle politiche di espansione nazista in Europa. Il contenuto maggiore di Haushofer fu lo sviluppo del concetto di Lebensraum ereditato dalla tradizione pangermanista, per cui la naturale tendenza delle stirpi tedesche era verso l'unificazione del continente europeo.

Le due dottrine hanno in comune un'idea mistica legata alla predestinazione di un popolo, che si e legatura un particolare periodo storico nel quale le nazioni moderne si spinsero alla costituzione di grandi spazi oltre la dimensione territorialidello Stato e per la realizzazione di un ordine mondiale. Da questo punto di vista non c'è differenza nella concezione della frontiera tra il Manifest Destiny e il Lebensraum.

D'altro canto, la dottrina marittima pensava a un ordine globale da realizzare verso est e verso ovest dal centro della grande 'isola' americana, chiamata a ereditare il ruolo avuto nel Settecento e Ottocento dalla Gran Bretagna rispetto all'Europa, ma da realizzare su scala più grande, cioè planetaria. Mentre la dottrina continentale si rappresentò al centro di una 'panregione' che corre dal polo nord al polo sud e, quindi, ha confini definiti rispetto a Altre panregioni situate a est e a ovest.

 

 

 

 

 

 

Migranti, 'frontiere', spazi di confine: un 'ipotesi per l'analisi dell'attuale spazio politico europeo

 

Dott. Alessandro SIMONCINI

A partire dall'analisi della produzione di alcuni autori contemporanei che hanno problematizzato il nesso "globalizzazione" - migrazioni - neorazzismo, la relazione tenterà di fornire un contributo alla riflessione sulla ridislocazione delle frontiere 'esterne' ed 'interne' nello 'spazio europeo' contemporaneo.

L'intervento prende le mosse dall'ipotesi che la crisi economica degli anni '70 abbia 'dettato' agli stati europei una politica delle 'porte chiuse" che ha trovato nell'accordo di Schengen un suo conseguente approdo. Nella relazione si sosterrà dunque che dalle politiche migratorie 'aperte' dei "Trenta gloriosi" - dettate dalla domanda espansiva di manodopera e finalizzate al disciplinamento di una forza-lavoro immigrata capace di sorreggere il grande sviluppo industriale dei paesi ospiti - , si è passati a politiche 'chiuse', che hanno risentito della contrazione del mercato del lavoro e del rallentamento della 'crescita' interna. Si è trattato, insomma, di politiche tese a bloccare i 'flussi migratori', ma aventi il risultato di incentivare una massiccia immigrazione clandestina (che costituisce manodopera 'docile', "irregolare", 'specchio' del precariato 'che viene', in una parola 'vantaggiosa'). Si tratta - oggi - di politiche che vanno analizzate anche alla luce della strategia della delocalizzazione produttiva, operata dalle imprese occidentali al fine di poter contare sulla proficua messa al lavoro della manodopera locale. E' quest'ultima una strategia già concepita come possibile 'via di fuga' alla saturazione dei mercati locali ed 'antidoto' alla riduzione dei profitti da capitale.

In altri termini, la delocalizzazione produttiva - importante 'tendenza' del mercato internazionale degli ultimi decenni - viene qui considerata come un processo che richiedere l'elevazione di frontiere esterne' nazionali ('doppiate' dalla superirontiera di Schengen) le quali permettono - per dirla con Yann Moulier Boutang - di "imbrigliare il salariato", 'fissandolo' (rendendolo così ulteriormente 'debole') nelle società di appartenenza. Laddove, cioè, la produttività del lavoro dipendente permette una più alta remuneratività dei profitti. E perché ciò accada, non è raro il ricorso - da parte degli stati occidentali - a politiche di "aiuto". Questo "imbrigliamento" consente inoltre di produrre una crescente "clandestinità" la cui 'valorizzazione' avviene nei paesi "sviluppati".

Si sosterrà insomma che la fase attuale del capitalismo mondiale integrato, surdetermini - per dirla con E. Balibar - la costruzione e la tenuta della "fortezza europea". E che quest'ultima a sua volta possa contare - ai tini di una valida 'difesa'(qualora vengano varcate le 'frontiere esterne' dei singoli stati nazionali), su di una molteplicità di 'spazi confinari' e di 'frontiere interne'. 'Spazi' e 'frontiere' la cui 'costruzione' nei paesi di arrivo, rafforza (e viene rafforzata da) processi di identificazione i quali il noi delle società ospiti si separa - giocando una strategia di inclusione differenziale - dagli altri: i migranti, concepiti come stranieri interni. Si ha così una 'ri-funzionalizzazione' dello straniero nella 'tarda modernità'. Figura contemporanea del meteco, egli è infatti capace di rispondere ai bisogni di inimicizia delle società occidentali, orfane - dal 'dopo-muro' - del 'Grande Nemico'.

Tra questi 'spazi confinari' (che al contempo costruiscono - e forse già da sempre son- 'frontiere interne') si tenterà di individuare quelli che si ritengono maggiormente 'messi in forma' dalle dinamiche appena descritte.

Per questo motivo l'analisi partirà dal ruolo della segmentazione del mercato del lavoro - e della sua tendenziale etnicizzazione - nella 'costruzione' di 'spazi confinari' nei quali opera una peculiare 'forma' di "salariato precario", 'messo al lavoro' all'interno di quello che Alain Morice ha definito "il laboratorio della flessibilità generalizzata". Si seguiranno, qui, le indicazioni fornite dalle ricerche di E. Pugliese sul rapporto tra internazionalizzazione del mercato del lavoro, crisi del modello fordista e lavoro dei migranti.

Simili 'spazi confinari' possono essere rafforzati - ed è il secondo versante dell'indagine - dalla complessa e ramificata presenza sociale (forse - soprattutto oggi - sottovalutata) del cosiddetto "differenzialismo". Nella relazione si tenterà di tratteggiare le caratteristiche principali dell'insidiosa logica di un complesso di pratiche discorsive che - in nome della difesa delle identità culturali e dell'elogio della differenza- trasvalutano concetti, temi e 'strategie' che in altri tempi (ed in 'campi discorsivi' progressisti) avevano avuto funzioni emancipatorie. Il differenzialismo, infatti, ri-funzionalizza il 'discorso' del "diritto alla differenza" alla chiusura delle frontiere e si presenta come un "razzismo senza razze" la cui capacità di divenire egemone nella 'realtà', nell' 'ordine simbolico' e nell' 'immaginario collettivo' andrebbe presto verificata.

In seguito ci si soffermerà - con un'ottica che privilegia la situazione italiana - sull'ideologia 'securitaria' e sulla produzione di uno 'spazio della sicurezza' sostanziato da quella che S. Palidda chiama "deriva poliziesca delle politiche migratorie". A ciò sono strettamente connessi lo 'spazio della criminalizzazione' e la correlativa 'costruzione della devianza' (il cui corollario emotivo è ciò che A. Dal Lago definisce "tautologia della paura").

La conclusione della relazione si soffermerà sulla necessità di riattivare - per dirla con M. Wieviorka - lo "spazio dei movimenti sociali" e dell'azione collettiva - opponendolo a quelli della precarizzazione montante, del "razzismo", della 'produzione di etnicità fittizia" (che necessariamente rafforzano le 'frontiere interne', fornendo 'senso' a quelle esterne) - affinché sia possibile tornare a 'configgere' con una concezione 'difensivista' dello spazio pubblico che ispira la 'produzione' continua e polimorfa di 'frontiere esterne' ed 'interne'.

Non tanto per perseguire la 'chimera' di "un mondo senza frontiere", quanto per incidere sull' 'economia politica' che soggiace al processo di 'fortificazione' delle frontiere. Insomma per recuperare il vero senso della 'cittadinanza', esercitando -

come suggerisce E. Balibar - un "controllo democratico... sui controllori delle frontiere": quegli stati che richiedono la nostra obbedienza e quelle le stesse istituzioni sovranazionali che mal tollerano la pratica di un 'europeismo transnazionale'. Una pratica capace di opporsi alle retoriche dell'identità europea, di valorizzare la critica della divisione internazionale del lavoro presente nell'esercizio del diritto di fuga (che le migrazioni mettono in atto), di intraprendere, insomma, la "lunga marcia verso la costruzione dello spazio pubblico europeo".